Nella NATURA DIVINA ritroviamo noi stessi e le nostre origini

L’ERBORISTERIA NELLA STORIA

Nell’Ecclesiaste (38–4) troviamo scritto: “Altissimus creavit de terra medicamenta et vir prudens non abhorrebit illa” (Il Signore ha creato medicamenti dalla terra e l’uomo saggio non li disprezzerà).

Le più antiche civiltà conoscevano bene le proprietà benefiche delle piante e le sfruttavano per risolvere le malattie e le sofferenze del corpo.

Il regno dei “Semplici”, come venivano un tempo definite le piante officinali, comprende organismi viventi che, in realtà, sono molto complessi.

Le piante si possono considerare un vero e proprio laboratorio vegetale vivente, attraverso il quale, con l’aiuto dell’energia solare, avvengono trasformazioni chimiche di elementi composti che portano alla fotosintesi clorofilliana.

Attraverso l’apparato radicale, le piante assorbono inoltre, dal terreno Sali minerali e nitrati, per sintetizzarli in altri componenti, quali glucidi, protidi, lipidi, oli essenziali, vitamine ed oligoelementi.

L’uomo utilizza questi elementi per il proprio benessere, poiché essi sono facilmente assimilabili, essendo simili alla composizione del proprio organismo.

Tutte le civiltà antiche sapevano curare i vari malanni con alcune piante che crescevano spontaneamente.

Nei rotoli di papiro, scoperti nel 1873 dall’egittologo tedesco Georg Ebers e risalenti a 2.400 anni prima di Cristo, era contenuto il primo trattato medico egiziano conosciuto, costituito da uno straordinario e numeroso elenco di piante e di medicamenti, indicati per le varie malattie.

Nell’Alto Egitto si sviluppò una importante Scuola di Medicina, dotata di un orto botanico, ricchissimo di piante medicinali.

Le conoscenze mediche dell’Antico Egitto si diffusero particolarmente in Mesopotamia, dove i medici babilonesi utilizzarono le proprietà terapeutiche dei rimedi vegetali.

Ma furono soprattutto i Greci ed i Romani che ereditarono le nozioni degli Egiziani, portandole ad un più alto livello.

Aristotele si interessò anche di Botanica e di Scienze Naturali. Ippocrate, detto il padre della Medicina, scrisse tutto il saper medico dei suoi tempi nel “Corpus Hippocraticum”, in cui sono descritti i rimedi vegetali per ogni malattia.

Catone il Vecchio, nel suo trattato “De re rustica”, descrive 120 piante coltivate da lui nel suo giardino.

Dioscoride, nel suo trattato “De materia medica”, elencò oltre 500 droghe di origine vegetale, minerale o animale.

Plinio il Vecchio scrisse la sua “Naturalis Historia”, nella quale inserì, però, spesse volte, descrizioni molto fantasiose.

Il greco Galeno diede origine alla Scuola Galenica o Farmacia Galenica, in cui distinse l’uso delle piante essiccate, dai preparati galenici, ottenuti attraverso solventi, come alcool, acqua, olio o aceto.

In questo modo riuscì a concentrare i principi attivi delle varie droghe, per la preparazione di unguenti, impiastri e altri prodotti galenici.

Dopo la caduta dell’Impero Romano d’occidente, per tutto il Medioevo, non ci furono rapidi progressi, in campo scientifico.

Spesso, scienza, magia e stregoneria, si confondevano tra loro: droghe, come mandragola, giusquiamo e belladonna, venivano considerate piante di origine diabolica.

Però, durante il Medioevo, in mezzo a tante guerre e cambiamenti politici, tutte le conoscenze erboristiche acquisite nei millenni precedenti, furono prese in eredità dai monaci, profondi conoscitori di latino e greco.

Essi diventarono così depositari del sapere del passato.

In parecchi monasteri si trovano i “Giardini dei Semplici”, cioè di erbe medicinali, coltivate per la cura dei malati.

Famosa è anche la suora benedettina Santa Ildegarda che scrisse alcuni trattati di erboristeria, noti con il nome di “Physica”.

In quel periodo, la medicina fu dominata dalla “Scuola Salernitana”, con grandi scienziati e medici, come Avicenna, Avenzoar e Ruggero da Salerno.

Durante il Rinascimento, in seguito ai grandi viaggi esplorativi verso l’America e le Indie, iniziò un nuovo periodo di progresso scientifico e di conoscenza delle proprietà delle piante officinali.

Nel XVI secolo, il medico svizzero Paracelso inventò la teoria delle affinità e tentò anche di isolare dalle varie piante medicinali, la loro “quintessenza”, cioè la fonte delle loro virtù terapeutiche.

L’ italiano Pier Andrea Mattioli descrisse 100 nuove specie di piante, utilizzando una nuova classificazione sistematica dei vegetali.

In questo periodo affluirono in Europa numerose erbe officinali, provenienti da paesi lontani, assieme però, anche a tante piante velenose e tossiche, come il curaro, la coca, l’oppio e la noce vomica.

Nel 1735, il grande naturalista svedese Carlo Linneo scrisse il “Sistema Naturae”, nel quale classificò le piante, basandosi sui sessi dei fiori e suddividendole in crittogame e fanerogame.

Negli ultimi secoli, si sono studiati i principi attivi e le attività terapeutiche delle varie piante, in base ai componenti chimici in esse contenuti, svelando così i segreti della loro azione sul corpo umano.

Più tardi si arriva in molti casi a sintetizzare in laboratorio quelle stesse sostanze.

I vantaggi di questa innovazione furono notevoli. Da un lato, per la prima volta, era possibile avere a disposizione quantitativi enormi di molecole, tali da soddisfare le necessità di una popolazione in costante crescita, dall’altro si potevano raggiungere in ogni individuo concentrazioni terapeutiche e precise del farmaco, anche per sostanze per le quali ciò risultava prima impensabile.

Inoltre venivano eliminati la maggior parte dei problemi legati al trasporto, all’immagazzinamento e alla distribuzione dei farmaci: le pastiglie avevano una durata superiore nel tempo, occupavano volumi enormemente inferiori e il dosaggio era sempre sicuro.

Ma non fu l’uovo di Colombo. Assieme a tutti questi vantaggi ecco comparire una serie di effetti spiacevoli prima molto più rari. Li chiamiamo effetti collaterali o indesiderati.

Per un qualche strano tipo di disegno naturale, le piante da cui gli stessi principi attivi sono estratti, molto difficilmente producono effetti indesiderati.

La natura stessa sembra infatti aver stabilito in anticipo un’armonia che solo ora iniziamo a comprendere.

Dobbiamo differenziare i singoli principi attivi purificati, estratti dalle piante medicinali, rispetto ai fitocomplessi, cioè alle piante intere come entità biochimiche polimorfe e complesse.

Con fitocomplesso si intende appunto la somma delle diverse molecole presenti in una pianta integra.

Partendo da un organismo vegetale, dotato di proprietà e attività farmacologica, è possibile estrarre e purificare alcune molecole che vengono definite “principi attivi”.

Così ad esempio dal ricino si estrae l’acido rinoleico e dal papavero da oppio la morfina.

E’ tuttavia un grossolano errore ritenere che un singolo principio attivo purificato svolga sempre una azione più efficace in assoluto, rispetto a quella della pianta da cui è estratto, se utilizzato in toto.

Sebbene sia ovvio che l’utilizzo di principi attivi purificati permetta frequentemente di ottenere effetti farmacologici mirati, nonché di raggiungere concentrazioni terapeuticamente misurabili, è altrettanto vero che il fitocomplesso rappresenta un’unità funzionale nettamente più armonica, equilibrata e spesso priva di nocivi effetti collaterali.

Sotto il profilo biochimico ciò è motivato dalla presenza nel fitocomplesso di un notevolissimo numero di altre molecole che interagiscono con il principio attivo, integrandolo e modulandone l’attività fisiologica, la tossicità, la solubilità e l’assorbimento. Tali molecole, che potremmo definire come sostanze adiuvanti, modificano e armonizzano l’azione dei principi attraverso molteplici sinergismi.

In sintesi il fitocomplesso svolge spesso funzioni che potremmo definire maggiormente armoniche ed equilibrate per l’organismo, rispetto al singolo principio attivo purificato.

 

 

Oretta Bonavita